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Secondaria 2° grado

Le parole della Grande Guerra

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    • Consapevolezza ed espressione culturale
    • 09. Gli insulti non sono argomenti
    • • Quali sono le parole che crearono “il nemico” ed ebbero più incidenza nel portare progressivamente i popoli alla guerra?

      • Quali parole o espressioni ostili dell’epoca della Grande Guerra utilizziamo ancora?

      • Come la Grande Guerra ha modificato in generale il linguaggio con espressioni guerresche utilizzate in senso figurato (es. marcare visita, essere in linea, rompere le scatole)?

Svolgimento
110'
  • Rifletti e discuti con i compagni di classe

    L’insegnante introduce il tema con una riflessione sul fatto che uno dei motivi per cui il primo conflitto mondiale può definirsi “grande” è perché tuttora non è finito. Le sue conseguenze albergano infatti nel nostro presente. Anche le categorie del pensiero umano, nonché le modalità di espressione dello stesso, sono state influenzate e risentono ancor oggi dell’incidenza e della radicalità di quel conflitto, il primo in cui l’uomo perse la sua centralità a favore della massa.

    La riflessione viene poi spostata sul tema “lingua e guerra”. Il tema è sconfinato e si presta a innumerevoli riflessioni. Se ne possono scegliere due, che riguardano rispettivamente il tema di come la Grande Guerra abbia modificato la lingua italiana (ma anche tutte quelle dei Paesi coinvolti: il medesimo fenomeno si ritrova ad esempio in Francia, Inghilterra e Germania), grazie all’introduzione di espressioni nate in trincea. Queste espressioni hanno, a ben guardare, quasi sempre connotati ostili o guerreschi: “scemo di guerra”, “imboscato”, “cecchino”, “disfattista”, “crucco”, solo per menzionarne alcune.

    A complicare il quadro, e a dimostrazione della compresenza di ostilità e umanità in tutta l’esperienza della Grande Guerra (complicità rivale hostis-hospes, per dirla con il filosofo Eligio Resta), la parola di guerra è però sempre anfibia. Si pensi a “crucco”, consueto dispregiativo utilizzato per i tedeschi. La parola, di etimo incerto, proviene probabilmente dal croato “kruh” pane (i croati erano sudditi austroungarici) e nasce dalla comprensione del dramma degli Imperi centrali ridotti alla fame, soprattutto dopo aver sfondato a Caporetto. Nelle parole ci sono sempre “tracce nascoste” di ostilità o di accoglienza della diversità, come d’altronde dimostrano già hostis e hospes, che condividono la medesima radice indoeuropea.

    Un secondo aspetto della relazione lingua-guerra è che la comunicazione di massa trovò nel conflitto un banco di prova essenziale per elaborare strategie di persuasione, che vennero poi adottate nei decenni successivi, fino alla contemporaneità. Il fenomeno coinvolse in primo luogo la letteratura. Alcuni autori capirono il carattere essenziale del coinvolgimento delle masse. Ne sono prova i tanti discorsi e pamphlet fino alle c.d. “radiose giornate di maggio” e durante i tre anni e mezzo di guerra. Già quest’ultima espressione – “radiose giornate” – trasmette l’idea del futuro, dell’aurora purificatrice della primavera inoltrata, del futuro di luce e di gloria.

    È noto che questa prospettiva si inabissò nella neve gelida dell’arco alpino o sulle pietraie del Carso. Per lenire il dolore, ci vollero allora altre parole: guerra bianca, per esempio, che trasmette l’idea non solo della montagna ma anche dell’inesistenza del conflitto, quando invece lo stesso era aspro. Parole per creare miti, quindi, tra cui il più pericoloso è certamente quello del “nemico”. Il tedesco è il “germHun”, nella propaganda bellica inglese. Si pronuncia uguale a german, ma è una crasi tra german e hun, unno, la bestia feroce. Il nemico non è un uomo, è chi stupra le donne, uccide i bambini. Non è solo opportuno combatterlo, è necessario.

    Si nota così, grazie a questi pochi accenni sparsi, la potenza evocatrice della parola, la sua capacità di creare miti, staccare a volte l’individuo dalla realtà, creare comunità effimere (la c.d. comunità d’agosto), polarizzare la sua ostilità verso nemici, molte volte artificiali. Molte altre sono le espressioni che hanno determinato tali conseguenze: si pensi soprattutto a Caporetto come sinonimo di sconfitta, ma anche a “vittoria mutilata”, ossimoro dannunziano portentoso, perché di potenza straordinaria, visti gli episodi del dopoguerra, a partire da Fiume.

    Pertanto il tema indicato può essere studiato in due prospettive: concentrarsi su quali parole della Grande Guerra contengono tracce nascoste di ostilità o accoglienza della diversità, e riflettere su quali furono le parole determinanti per la creazione di un nemico comune, elemento essenziale per spingere alla guerra.

  • Leggi e discuti

    Lettura in classe di alcuni saggi tratti dal libro “La Grande Guerra. Storie e parole di giustizia, vita e pensiero”, a cura di Gabrio Forti e Alessandro Provera, Vita e Pensiero, 2018.

    Riflessione sulle conseguenze emotive e comportamentali delle parole grazie ai saggi di Pedrini, Forti, Snenghi, Rusconi, Cattaneo, Capecchi, Resta, Eusebi, contenuti nel predetto volume.

    Riflessione sulle descrizioni del nemico e i termini usati. Uno spunto in tal senso può venire dal volume “Le scarpe al sole” di Paolo Monelli (l’ultima edizione, uscita per Mursia nel 2014, ha una piccola antologia di parole della Grande Guerra).

  • Scrivi un tema

    Scrivere un tema: “Descrivere uno o più esempi, storici o contemporanei, anche di carattere politico, in cui la parola è stata utilizzata per creare una tipologia di ‘nemico’ artificiale, in assenza di una sua reale pericolosità, al fine di compattare un determinato gruppo sociale e distogliere la sua attenzione da effettive problematiche della società”.

    I discorsi di Gabriele D’Annunzio, ad esempio il Discorso allo scoglio di Quarto dei Mille o il Discorso alla ringhiera del Campidoglio, sono esempi di discorsi di estrema efficacia nell’orientamento dell’opinione pubblica.

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